Ascesa, declino e resurrezione di “una famiglia americana”: Joyce Carol Oates

JoycecaroloatesJoyce Carol Oates è una di quelle scrittrici di cui, da anni e anni, sentivo parlare – anche in occasione di ogni premio Nobel che, malgrado fosse perennemente candidata, non le veniva mai assegnato -, ma che non avevo ancora letto. Ora posso dire di avervi posto rimedio. La bibliografia dell'autrice americana è sterminata, quindi posso ben dire di avere scelto a casaccio il suo primo libro da leggere, pescandolo un paio d'anni fa tra quelli (usati) disponibili in una libreria londinese. Il prescelto è stato We Were the Mulvaneys (Una famiglia americana, nella traduzione italiana). Esagerando un po' – ma neanche tanto -, mi pento di aver perso tanto tempo prima di scoprire un'autrice il cui genio si esprime sia sotto la specie della qualità che della quantità.

Non voglio rivelare troppo della trama, ben congegnata, per non rovinare il piacere a chi volesse leggerlo: la narrazione copre un arco temporale di quasi vent'anni, dall'inizio degli anni settanta agli anni novanta. Gran parte del racconto, a posteriori, è affidato a Judd, il figlio minore della famiglia Mulvaney, ma la prospettiva oscilla tra la prima persona e la terza di un narratore onnisciente. Protagonisti del romanzo sono proprio i membri di questa famiglia, costituita dai genitori Michael e Corinne e dai figli – in ordine di età – Michael jr., Patrick, Marianne e Judd. Una volta conclusa la lettura ho pensato che a We Were the Mulvaneys si potrebbe applicare lo "schema di Propp", interpretandolo così come una sorta di fiaba moderna. Anche qui c'è uno stato di equilibrio iniziale che viene spezzato da un evento funesto a cui seguono una serie di peripezie dell'eroe finché alla fine si ristabilisce, pur se in forma diversa, l'equililbrio perduto. La particolarità è che qui l' "eroe" è tutta la famiglia Mulvaney, intesa quasi come corpo unico.

Nella prima parte del romanzo, infatti, i Mulvaney sono un un'unità compatta, simili a un organismo che vive e respira all'unisono, in un ambiente – quello della fattoria di High Point, nei pressi di Mount Ephraim – che ha qualcosa di fatato, in una perfetta fusione con la natura e con il mondo animale (e, detto per inciso, gli animali – cani, gatti, cavalli, uccelli – sono veri e propri deuteragonisti del romanzo, dotati di personalità spiccate e dipinti dall'autrice con un affetto tutto speciale). A un certo punto – il giorno di San Valentino 1976 – succede il fatto, l'evento funesto che spezza l'equilibrio e mette in moto una serie di ulteriori eventi dissolutivi. La famiglia si scompone a poco a poco nei suoi singoli elementi e l'attenzione di Joyce Carol Oates si concentra via via su ciascuno di loro.

E' vero, come osserva qualche lettore, che We Were the Mulvaneys è un romanzo "lento" e occorre pazienza prima di entrare nel vivo della storia, anche se non mancano capitoli pieni di suspense, come per esempio quello dedicato alla preparazione e all'esecuzione della vendetta da parte di Patrick. Tuttavia questa lentezza non è gratuita, ma serve invece a creare quel senso di intimità familiare e di unità che verrà poi spezzata dal fattaccio. Nelle prime cento e passa pagine l'autrice riesce a immergersi in un contesto in cui la rappresentazione minuziosa di ogni dettaglio avvolge il lettore rendendolo pienamente partecipe di quel clima felice. E' una scrittura così densa, abbondante e coinvolgente da avvincere il lettore che cerchi una narrazione e profili psicologici non superficiali. Viceversa, l'evento perturbatore – quello che, tra l'altro, porterà all'allontanamento di Marianne dalla famiglia – è solo accennato e delle dinamiche con cui avviene ci viene fornita una conoscenza approssimativa, perché a contare sono solo le sue conseguenze e la percezione che, dopo, ne hanno sia Marianne che suo padre. Entrambi, infatti, non sono in grado di superare il loro pregiudizio e così – senza volerlo davvero – si condannano a un reciproco estraniamento. Tutti sono – come osserverà Patrick parlando con Judd – vittime inconsapevoli, non solo dei fatti ma anche delle opinioni di cui sono prigionieri.

Dopo una serie di vicissitudini che mettono i personaggi a dura prova, dopo la dissoluzione del nucleo familiare che comprende anche la vendita – a prezzo stracciato – della fattoria di High Point, dopo la separazione dei due genitori, dopo il progressivo declino del padre che manda in bancarotta la sua prosperosa attività di rifacitore di tetti ed è costretto ad accettare lavori sempre più umili, arriva il punto di svolta, l'evento che rappresenta sia un'ulteriore catastrofe che, al tempo stesso, la catarsi in seguito alla quale comincia il percorso verso la costituzione di un nuovo equilibrio. Il pater familias muore di cancro al polmone e la sua morte dà l'avvio a un processo di riconciliazione che nell'epilogo sfocia nella grande festa di famiglia per il Quattro Luglio. Se è vero dunque che tragedia può irrompere nelle esistenze degli individui distruggendone la felicità, è anche vero che una ricomposizione è sempre possibile e, malgrado qualcuno osservi che a volte Joyce Carol Oates ha uno sguardo eccessivamente morboso, a me pare che alla fine a prevalere sia una forma di realistico ottimismo: la miseria e il dolore non hanno l'ultima parola, come avviene in altri epos familiari.

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